Vi racconto una cosa: ho la fortuna di vivere in un posto che ha un minimo di spazio sotto casa.
Quando schiumo, mi faccio un po’ di giri di corsa lì sotto, spazio poco ma almeno sono all’aria aperta.
Ho la fortuna di avere i miei genitori a 100 passi contati da casa mia.
Cerco di andare a trovarli quando posso, magari allungando una spesa o, più spesso, prendendo qualcosa io; nel brevissimo tragitto, se incontro un altro essere umano, pare di stare in un film di Sergio Leone, mezzogiorno di fuoco anche se sono le sei di sera.
A volte basta un ciao dal balcone per comunicarci che stiamo bene – anche loro hanno uno spazio privato sotto casa – altre volte saliamo a piedi, noi rimaniamo vestiti sul pianerottolo, loro se ne stanno in cucina, e ci parliamo da lontano, ma almeno ci vediamo.
In queste incursioni dai nonni, porto spesso mio figlio con me.
Come mi è stato necessario talvolta portarmelo a fare la spesa.
Fino a che un giorno la cassiera mi ha redarguita: non potrei farvi entrare in due.
Alla mia obiezione di dove avrei dovuto lasciare un bambino per svolgere un’azione necessaria (il brutto vizio di mangiare non lo abbiamo perso, purtroppo), mi sento rispondere “e lo lasci da un vicino”.
Certo.
Non lo lascio nemmeno avvicinare ai nonni, però lo lascio da un vicino.
Potrei andare avanti con mille esempi del genere, che non sono normati, ma coinvolgono migliaia di famiglie.
Ma il punto è che ho sempre cercato di usare il buonsenso.
Davide non vede altri orizzonti che questo da oltre un mese.
Non mi sarei mai sognata di portarlo a passeggio in Via Sestri o sul lungomare di Pegli.
Non ci voleva un decreto a dirmelo, e nemmeno una circolare per spiegarmelo.
È dura? È durissima.
Ma non perché sia io ad averne le palle piene, come tanti hanno accusato noi genitori, ma perché a lui manca la socialità, non l’aria aperta.
Per soddisfare quel bisogno, abbiamo un grande cortile e due ampi balconi.
Ma lui vuole giocare a pallone con i suoi amici, non contro un muro, da solo.
Sono scoglionata?
Come tutti, ma mi godo i privilegi che ho, anziché lamentarmi, o peggio, additare chi ne ha più di me (o che io percepisco tali).
Sono preoccupata?
Moltissimo, perché questa roba sono certa che avrà conseguenze gravi sui nostri figli, che quantificheremo nel tempo.
Ma so anche che oggi questo dobbiamo fare: stare a casa.
E farci dieci rampe di scale se siamo stanchi del culo posato sul divano.
Che i bambini e i loro diritti intangibili siano i grandi dimenticati di questa situazione è indubbio, se si è dovuto correggere il tiro persino sulla vendita di pennarelli e risme di carta.
Che non si sia mai stati capaci di rispondere ai loro bisogni nemmeno in tempi normali non è una novità, figuriamoci adesso.
Che la gestione sia delirante, specialmente per noi genitori che abbiamo ancora la fortuna di lavorare, è più che evidente.
Ma se non siamo in grado di auto limitarci, di darci un minimo di autodisciplina noialtri, non sarà un decreto – che peraltro non siamo nemmeno in grado di interpretare – a salvarci.
Vorrei vedere le stesse alzate di scudo contro i padroni di cani, contro le scelte scellerate di chi ha distrutto la sanità (ricordiamoci che sono i sanitari al momento, i maggiori veicoli del virus), o contro Confindustria che fa lavorare gomito a gomito centinaia di operai.
O ancora meglio, vorrei che la gente la smettesse di gettare merda sul prossimo perché magari il prossimo ha un giardino o, se non ce l’ha, cerca di sopravvivere, passeggiando in tondo, per 20 minuti sotto casa.
E facesse il suo pezzetto, con testa e senza intaccare la libertà altrui.
Il faut faire avec… dicono i francesi, e forse, ce la faremo.